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Book review

Luigi Ottani: Shooting in Sarajevo

Il libro fotografico Shooting in Sarajevo è stato pubblicato nel 2020 per i tipi di BEE (Bottega Errante Edizioni), piccola casa editrice indipendente di Udine. Contiene 61 scatti di Luigi Ottani, fotografo e pubblicista modenese, e diversi contributi testuali a firma di autori italiani e bosniaci. È un libro polifonico, in questo senso, perché fa sì che più voci corroborino con le parole la malinconica melodia estetica che le immagini compongono scatto dopo scatto.

A chi storcesse il naso, in virtù di un qualche purismo linguistico, per la scelta di un titolo in inglese da parte di un autore italiano, bisognerebbe far notare alcune cose. Shooting in Sarajevo non si chiama così per seguire la sciocca moda contemporanea di utilizzare l’inglese anche in luogo di termini italiani equivalenti. Il titolo gioca sulla sovrapposizione, in inglese appunto, tra due dei significati del verbo to shoot, che può significare sia “sparare” che “fotografare”. Non è dunque nemmeno un inutile tentativo di velare la tragedia di Sarajevo, multietnica Gerusalemme d’Europa, di un retorico ecumenismo intellettuale, come a volerla avvicinare a tutti, per renderla più comprensibile. La verità è che per chi non l’ha vissuto in prima persona, l’assedio della capitale bosniaca resta tuttora un evento remoto e vago, incomprensibile soprattutto nel suo aspetto più crudele, il fuoco dei cecchini sui civili.

Il lavoro di Ottani riesce a colmare significativamente questa distanza: non solo, cioè, riducendola nella sua consistenza, collocando fisicamente l’obiettivo negli stessi punti strategici dei tiratori, scegliendo “vittime” quali quelle che si trovavano gli sniper nel mirino, riportando nel mirino fotografico gli stessi incroci, viali e spazi che trent’anni fa furono scenografie di omicidi gratuiti. Ottani colma significativamente la distanza tra noi e questa pagina di storia perché dà un significato all’azione del suo fotografare.

Il fotografo-cecchino si apposta, scruta, individua un obiettivo, lo segue, lo mette al centro della propria ottica e preme un grilletto-otturatore. Sceglie di identificarsi con la vittima, forse, ponendo sé stesso (e noi con lui) al di là dello scatto-pallottola, istantaneo finale di una lunga conoscenza che non è reciproca. Ma sceglie soprattutto di identificarsi col tiratore, compiendo gli stessi gesti, seguendo le stesse scie, cercando le stesse sensazioni, comprendendo forse il potere che si ha sul soggetto nella propria lente.

Le riflessioni che questo libro fa scaturire, banali e poco sviluppate in questa sede, portano al cuore concettuale stesso della fotografia. Che cosa rende ancora possibile la fotografia, se non la soggettività di chi decide di scattare? In un mondo in cui le intelligenze artificiali si apprestano a sostituire l’uomo in ogni sua attività, è lecito chiedersi che cosa renda l’uomo veramente speciale e, di conseguenza, l’arte veramente unica. Un software sarebbe in grado di individuare i soggetti e distinguerli, calcolare ogni parametro per uno scatto perfetto: ma sarebbe fotografia? E sarà un software, in battaglia, a distinguere i bersagli e calcolare le traiettorie perfette e più dannose. Ma ciò non stupirà nessuno.

In uno dei testi del libro, Gigi Riva si chiede se il cecchino si vieti di pensare. Nessuno si porrebbe la stessa domanda su un fotografo. Eppure entrambi scelgono la posizione da cui “scattare”, la distanza dal bersaglio, il bersaglio stesso, i tempi. Calcolano parametri ed imprevisti, variazioni e oscillazioni. Entrambi intrattengono una breve relazione con ciò che sta al di là delle lenti. Le fotografie di Shooting in Sarajevo ci portano brutalmente a fare i conti con l’ineluttabilità dell’arbitrio. Lo fanno collocandoci in alto rispetto ai bersagli, passanti e bambini su cui piombiamo con prospettive angolate e taglienti; aprendo viali e panorami di una Sarajevo cementizia al nostro sguardo balistico, e soprattutto inserendo in postproduzione il reticolo del mirino, che si ritrova persino in quarta di copertina, e non lascia scampo a dubbi:  egli guarda, trova e sceglie.

È vero: come dice Mario Boccia, Ottani ha «il rispetto della realtà del fotogiornalista», ma il coinvolgimento che provoca è ben maggiore, e passa per quelle quattro brevi linee perpendicolari nel cerchio nero della scelta ottica.

È  doloroso comprendere che ciò che è stato fatto a Sarajevo è frutto di scelte e volontà, ma necessario per essere consapevoli di ciò che è accaduto, cercando di capire e imparare. E un libro come questo può far molto per aiutarci a farlo.

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