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Nicola Barbuti: semplicemente street

Ho trovato le fotografie di Nicola Barbuti su Instagram, per caso. Mi hanno subito colpita. Ci siamo scambiati qualche messaggio e mi ha raccontato la sua storia. Solo un pezzo per la verità: quello che lo lega alla fotografia.

Le immagini di Nicola sono dirette, schiette in un modo non comune. “Nell’estate del 2012 suonavo spesso con la mia band” mi ha scritto, “durante un concerto mi sono lanciato dal palco riportando la frattura del calcagno”. Leggo spesso interminabili bio di artisti. Penso: quale potrà mai essere il nesso tra un calcagno rotto e la fotografia? E invece il nesso c’è. E mi lascia esterrefatta: “Sono stato costretto a starmene a letto e durante questo periodo ho letto molti libri sulla fotografia”. Ma la parte migliore viene dopo. L’approccio concreto di Barbuti alla fotografia viene nientemeno che dalla noia: “Dopo due mesi i medici mi dissero che stavo bene e che avrei dovuto iniziare a camminare almeno un paio d’ore al giorno. Vivevo in una città abbastanza grande ma noiosa, quindi per rendere meno noiosa la mia attività all’aperto portavo con me la mia macchina fotografica. Questo è il motivo e il momento in cui ho iniziato a scattare fotografie di strada, e presto ho capito che era quello che mi piaceva scattare.”

Niente folgorazione sulla via di Damasco quindi, e nessun “fotografo da quando ero bambino,” “la fotografia è sempre stata la mia passione”. No. Solo una reazione creativa a una città noiosa. Scopro poi che la città “grande ma noiosa” è la stessa in cui sono nata io. Da cui poi sono scappata senza guardarmi indietro.

Per la prima volta mi viene in mente che forse il motivo per cui ho cominciato a scrivere non è poi molto diverso. La mia mente corre a un vecchio concetto, che mi accompagna come per caso da molto tempo: l’horror vacui. Il principio secondo cui l’arte nascerebbe da un desiderio di colmare il vuoto che si percepisce attorno a sé. Meno un luogo è pieno, più viene stimolata la creatività. Qualcosa del genere. Da questo sarebbero nati capolavori del calibro delle poesie di Emily Dickinson. Alcuni si spingono a sostenere che la nascita stessa dell’arte con le pitture rupestri sia frutto di un horror vacui.

La tendenza opposta – la sensazione che avvertiamo davanti alla home di Netflix o ai feed apparentemente infiniti dei social – si chiama horror pleni e genera un’incapacità di creare. Ma questa è un’altra storia.

Lo sguardo di Nicola è immediato, diretto, non ripulito. Risulta comunque elegante. Più di tutto, risulta vero. Onesto. Mi racconta di essere stato a Kiev nel 2017. Mi manda le immagini. Di nuovo, trovo che mostrino semplicemente la realtà. E’ quasi come se non ci fosse mediazione. La macchina fotografica, tra le sue mani, la immagino minuscola. Il contatto con il mondo è stretto, forte.

Nel nostro immaginario comune adesso quelle stesse strade sconvolte dalla guerra. Degli oggetti e delle merci esposte possiamo figurarci l’assenza, la penuria, il bisogno. Nicola ci mostra com’erano quelle strade, com’era la vita, prima che la morte ne prendesse il posto. Le parole aiutano, supportano le immagini. In qualche caso possono descriverle. Questa volta però non c’é molto da dire. Non c’è quasi nulla. Si leggono analisi e spiegazioni. Sotto le parole di cui è fatta questa guerra però stanno i piedi dei civili, che camminano per migliaia di chilometri cercando la salvezza. Ci sono le loro mani, che riempiono molotov e cercano di proteggere quello che resta. Vediamo come in un flusso continuo violente immagini di guerra. Ci mostrano un fatto moralmente inaccettabile: la sofferenza della gente.

Quando apro i file che mi ha mandato Nicola penso che in questo contesto le fotografie del prima sono estremamente potenti: mostrano quello che non c’è più. Quello che è stato tolto. Quasi più che davanti al ritratto delle ferite e degli edifici abbattuti, mi viene da distogliere lo sguardo. Quelle foto sono un grido, uno schiaffo in faccia: è questo che la guerra si è portata via.

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