Vladimir Nabokov scriveva: “Nessuna parola nella lingua inglese è in grado di restituire tutte le sfumature di significato della parola Tocka che designa uno stato di grande sofferenza spirituale che non scaturisce da alcuna causa precisa. A un livello meno morboso indica una sofferenza dell’anima… uno stato di vaga inquietudine, un senso di nostalgia o di struggimento amoroso”.
The Book of Despair è un progetto fotografico di Alessio di Nallo. The Book of Despair si spaccia, anche, per qualcosa che non è: un libro. Del libro, oltre alla denominazione, prende la struttura a capitoli. Eppure contemporaneamente si rivela per quello che è: secondo le parole del fotografo, “un frutto del caos”. Dal caos nasce, nel caos ritorna. Le fotografie sono organizzate con precisione, con razionalità. Forse proprio per questo riescono in uno degli intenti più nobili e difficili che la fotografia possa porsi: dare un linguaggio alla profondità dell’inesprimibile. Metodo e ispirazione, catalogazione e naturalezza si fondono in una rappresentazione con cui solo la complessità del reale può competere.
Nel passaggio dall’osservazione del reale alla sua rappresentazione si ha spesso la tendenza a semplificare. Ma chi l’ha detto che la realtà debba apparire più semplice nella sua dimensione narrata? Perché non lasciare invece che la narrazione si impregni e viva proprio della complessità del reale? The Book of Despair è specchio del complesso, ma va oltre queste riflessioni: rappresentando non solo il reale osservato all’esterno dell’occhio che fotografa, ma soprattutto il reale che sta dentro la testa e dentro la psiche, del fotografo e dell’uomo. A dirla con Piero Scanziani, le immagini che compongono The Book of Despair paiono scattate da un entronauta. A sentire di Nallo, si tratta di un entronauta cattivo: “ho creato l’immagine di un tarlo cattivo, che scava, alle volte di più alle volte di meno, dentro di me, di un gene cattivo ereditato, di un profondo pozzo in cui mi calo per scoprirmi ma in cui, se non ho sufficienti energie, posso perdermi”.
Il “tarlo cattivo” è a un tempo frutto dell’intima attività mentale dell’autore e figlio del nostro tempo e della nostra società: “le mie energie intellettuali si sono consumate nella noia e nella conseguente abulia lasciando libero ‘il mostro’, rompendo l’equilibrio. Il mostro non è esterno, è interno e da forma nuova a tutto“. Quello che decodifica l’oggettività del reale è sempre un occhio soggettivo.
Un filo narrativo, anche se non si manifesta subito nella sua evidenza, c’è. Come vuole l’artista, procediamo a capitoli, guidati dalla sua narrazione.
intro:

“L’ introduzione del progetto già dice tutto. L’ individuo scompare e le uniche testimonianze di lui sono il tempo che su di lui si imprime (anche senza accorgersene) e i “lanternini” pirandelliani con cui ogni tanto, in momenti di lucidità, si orienta”.
Capitolo Primo:




“I capitoli successivi raccontano la rabbia, paragonabile a quella che potrebbe essere provata da un malato terminale o di Alzheimer in momenti di rinvenimento e l’indigestione del troppo tempo sprecato (sono una persona con profondissimi sensi di colpa nei confronti del proprio tempo, quando sprecato, perché molto consapevole di un’irrevocabile fine)“.
Capitolo Secondo:




Il secondo capitolo è “Autoritratto”: “Il richiamo a Francis Bacon è principalmente di carattere ammirativo – quasi ossequioso – ma vuole comunque ricollegarsi all’intento del progetto“.
Capitolo Terzo:



Il terzo capitolo ci riporta al primo, sia attraverso il concetto che attraverso la definizione: “Mutazioni”. Come accade prima, il soggetto risulta deformato, quasi storpiato. La sua immagine c’è, ma sfugge. Sono autoritratti. è la mente che agisce sull’auto-percezione e deforma la realtà. Quando la mente è inquieta, anche l’introspezione è falsata, riaffiorano i mostri.
Capitolo Quarto:



La trasfigurazione continua. La mutazione è quasi completa. Nell’ultima immagine della serie, vediamo il volto del fotografo riaffiorare dal caos. Il suo sguardo però è nuovo, tra lui e noi sta una coltre di pensieri che non si lascia attraversare. Un centro sembra essere stato parzialmente ritrovato, ma per chiunque stia al di fuori resta inaccessibile.
Capitolo Quinto:




“Gli ultimi tre capitoli cercano di “scappare” ” dalle sensazioni precedenti, e “tuttavia raccontano il frutto principale dell’abbandono ai pensieri e alle forme di quell’interiorità malata: la solitudine“.
Capitolo Sesto:

“Il capitolo 6 crea un’immagine di una delle soluzioni ai tormenti ed alle angosce di Raskol’nikov in “Delitto e castigo” “.
Capitolo Sesto:

… “mentre il 7 vuole figurare la solitudine (anche interiore) e l’incertezza di Drogo alla terza ridotta nel “Deserto dei Tartari” “
Tocka: Conclusione


Il cerchio si chiude, torniamo al principio. Tocka “si potrebbe tradurre con dolore interiore o malinconia, ma tuttavia, queste definizioni non colgono tutta la profondità semantica del concetto”. Climax del caos, ma nella calma dopo la tempesta: “il capitolo racconta la totale perdizione paragonabile al rifugiarsi in un castello (rappresentato nella foto) da malati, quando nessuno ormai più combatte fuori”.
La fotografia di di Nallo è – nella migliore accezione possibile – caotica e complessa, in un certo modo fatale: non si scappa. Inchioda chi guarda. Si scopre presto però che il colpo è sparato da dentro. Mostrando la sua chiusura anziché aprirsi allo spettatore, di Nallo non lascia scampo, ci mette davanti a quello che più profondamente ci definisce come individui e come collettività: il dolore lacerante dell’incomunicabilità, che muove ogni cosa.