Una conchiglia perduta in un rosso immobile e statico, rinchiusa dalle pareti trasparenti ed invalicabili di un vaso di vetro. Questo è il soggetto dei primi scatti del lavoro di Ilaria Sponda. Per primo, l’osservatore incontra una regolarità perfetta ed infinita, rappresentata dal cerchio di vetro, immobile in ogni scatto che lo riguarda. All’interno, in completo contrasto, uno sfondo rosso ed informe vuole ricordarci i coralli dove, in un contesto diverso, quella conchiglia avrebbe trovato la propria naturale casa. Questa non è, però, una storia di sola natura.

Se stessimo guardando uno scenario naturale vedremmo prima di tutto vita. Ed è esattamente ciò che manca alla nostra scena. Proseguendo negli scatti, infatti, la situazione si evolve nella propria monotonia. La conchiglia cambia, muta, varia di forma e luogo senza però mai modificare la propria essenza o il proprio contesto. Nonostante numerose variazioni fisiche la conchiglia rimane vuota e bianca, in tutte le sue forme, come se fosse ormai priva dell’essenza, perduta all’interno di quella cella. Il cerchio, adesso, è per noi come per la conchiglia solo un limite, un confine oltre il quale non vi è niente.

Come attraverso le nostre stesse iridi, è la semplice figura del cerchio che ci guida avanti nel nostro cammino. Due scatti, l’inizio e la fine di un percorso. Nel primo incontriamo finalmente un bagliore di umanità. Il cerchio di sfondo continua ad accompagnarci attraverso un colore simile alle foglie d’autunno, in primo piano, inoltre, il volto stesso della fotografa pare osservarci direttamente perdendosi nella trasparenza ed unendosi al background. La sua posizione, infine, ci trasmette costrizione e scomodità, come lasciandoci intendere che il cammino non è ancora finito.

A questo punto gli scatti perdono le forme e la semplicità a cui eravamo abituati, come se tutto ciò che potevamo vedere stesse immediatamente decadendo, corrompendosi e rovinandosi davanti ai nostri occhi. Il rosso che circondava la conchiglia e la fotografa occupa prima tutto lo scatto senza più confine per poi diventare sfumatura e nero contiguo, come una vasca di mercurio. Ogni evoluzione sembra avere però più aspetti, come possiamo osservare da un simil cielo stellato nascosto dietro una sfumatura nera come una tela bruciata. A cosa ci porta, quindi, tutto questo?

Infine, arriviamo all’ultimo scatto di questo progetto. Davanti a noi di nuovo un cerchio, prima cella ora, forse, cimitero. Bianco e nero, solo due colori rispondono all’appello senza quasi sfumature. All’interno del cerchio che ormai esiste solo come composizione degli elementi e non forma reale, troviamo figure simili a forme morte e nere, perse in un bianco totale che non riusciamo a riconoscere. Neve? Porcellana? Il contesto sembra ormai aver perso di valore. Una domanda sembra sopravvivere allo scatto: cosa significa per ognuno di noi quel cerchio e come è possibile, davvero, superarlo?


Ossa di conchiglie, però, racchiude e racconta anche altro. In quella silenziosa e profonda conturbanza che partorisce dall’ambiguità e dall’intimità della ricorrente figura del cerchio, si cela un ulteriore fine fil conduttore: la consunzione, la degenerazione, sorelle di un nascosto stillicidio. Ossa di conchiglie ha origine infatti con un occhio rivolto verso Ossi di seppia -il cui nome provvisorio fu, non a caso, “Rottami”- un’opera per descrivere come, nel periodo in cui il poeta l’ha concepita, della libertà di ogni uomo sia stato annientato tutto e sia rimasto poco o nulla. Sponda vuole raccontare il vuoto identitario, la stasi di un corpo e di una mente, forzati ad clausura che li ha quasi privati della propria natura. Le libertà si annichiliscono portandosi dietro l’individuo in un lento consumo dettato dal ritmo anormale di un tempo che non sembra scorrere. Consumo che possiamo vedere, forse anche in un richiamo estetico nei primi scatti, pure nelle opere di Burri, come Grande Rosso, storie di una logoramento dell’individuo incise sulla materia e nel suo consumo.
