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Roberto Solomita: A History of Violence

A History of Violence, una storia di violenza, progetto del fotografo Roberto Solomita, è una storia di teste mozzate. Letteralmente. Gli scatti sono pochi: soltanto cinque. Una sola costante: il capo staccato dal collo. In questo senso eccezione una sola fotografia, che mostra un ragazzino, tre o quattro anni, che si punta un fucile in un occhio. La faccia, comunque, non si vede.

Un pollo intero e bruciacchiato sta sospeso sopra al piatto e in maniera del tutto innaturale. La testa che non ha l’abbiamo mozzata noi. La testa che non c’è ci fissa cupa e tetra. Una candela si consuma sullo sfondo e un bicchiere sta vuoto. Riflette. Posate pronte al proprio posto ai lati del piatto. Il prototipo di un uomo siede su un divano, la sua testa è la carta da parati. Il solo occhio che ci guarda lo fa dal capo di un toro. Anche questo, sorpresa, mozzato, appoggiato su un piccolo sgabello. Ci sono poi una testa tra i sassi e una sauna che si fa camera a gas.

L’inconscio collettivo, secondo Jung, è un contenitore psichico universale,” ci ha scritto Solomita mandandoci le sue fotografie, “una immaginazione primordiale comune agli esseri umani che racchiude gli archetipi, cioè le forme o i simboli che si manifestano in tutte le culture e in ogni tempo”.  A History of Violence, ci spiega, “è una serie in cui le nostre vite quotidiane, il nostro benessere, i nostri riti mostrano il loro lato oscuro e diventano allegorie di esecuzioni capitali”.

“La violenza della pena di morte, il focaultiano «splendore dei supplizi», può assurgere ad archetipo della sofferenza e del male che pervade la vicenda umana”.

Nella società dello spettacolo digitale viviamo sommersi in un mare di immagine. L’acqua spesso ci invade i polmoni e ci toglie l’aria, ma siamo tanto impegnati nello sforzo di sviluppare branchie da non accorgercene quasi più: è il nostro sistema ad adattarsi al sistema-immagine. Solomita ci spiazza: solo cinque foto. E il resto? Il resto non c’è e – aggiungiamo – grazie al cielo. Come David Foster Wallace ai suoi metaforici pesci, il fotografo indica tutto attorno a noi e ci dice: questa è l’Acqua, questa è l’Immagine, questo il Dolore.  Cinque foto e poi non c’è nient’altro. Potenti, controllate, garbate: sono così sufficienti da diventare essenziali.

Si parla di dell’uomo, di come sia in grado di levare al suo simile la vita, di come lo sia sempre stato e poi – eccoci al punto – si parla del Male. “La pena capitale accompagna l’intero percorso della storia umana, assumendo forme differenti a seconda dei contesti: macchina feroce di espiazione, vendetta e castigo, strumento supremo di deterrenza per porre un freno al crimine e disciplinare la folla, esibizione spettacolare della crudeltà del potere volta a sbalordire, meravigliare e divertire.

“Nella serie A History of Violence la documentazione dell’orrore è sublimata dagli ambienti borghesi, a distanza dal registro morboso che potrebbe accostare la rappresentazione dell’esecuzione a una deriva pornografica. Per essere più consapevoli, come dice la Sontag in “Davanti al dolore degli altri”, «di cosa siano capaci di fare gli esseri umani ai danni dei propri simili» e provare empatia, quella sensazione per cui si sente di poter partecipare in qualche modo alla sofferenza dell’altro”.

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