La pandemia ha riscritto completamente dalle sue fondamenta ogni codice espressivo, e i fotografi hanno avuto la necessità di ritrovare un linguaggio efficace per rappresentare la realtà. Potrebbe sembrare banale, quasi ovvio, affermare la necessità di cambiamento, ma non lo è affatto. Trovare o ritrovare un alfabeto comunicativo è una delle sfide più ardue che la nostra società stia attraversando. Basti pensare alle innumerevoli chiamate, le lezioni online, il mancato contatto fisico, la nuova espressione gestuale; siamo inquadrati dal busto in su e il fisico non è più visto nella tua integrità.

La fotografia ha reagito in diversi modi. Uno di questi si presenta come un caso limite: togliere completamente la presenza del corpo umano. Tale scelta linguistica ha un retaggio passato. La fotografia non è più ritratto in quanto il volto, una mano, la schiena, i piedi non sono “pronunciati”; non è nemmeno più paesaggio: la natura non è più soggetto ma mezzo. Mezzo per che cosa? Per il ricordo, per la memoria, per la nostalgia…

In questo contesto si inserisce il progetto “Area Vacanza” del fotografo abruzzese Francesco D’Alonzo. Il soggetto dei suoi scatti è il tessuto urbano di una località di villeggiatura abbandonata da tutti, che cambia sotto il peso urbanistico dell’emergenza pandemica, che perde la sua stessa funzione di svago, divertimento o riposo, ma che accetta al contempo una nuova accezione di quella memoria, di quel ricordo, di quella nostalgia che non nutrono più la sua anima.
Si tenta in ogni modo di ingabbiare e rivivere quelle sensazioni annegate nel Lete, il fiume dell’oblio, in una costante ricerca del passato che cozza con la crudezza del paesaggio manifesto nell’oggi, nel quotidiano. Si cammina in un mondo alieno, che non ci appartiene più, che non è più in noi e per questo oggetto del più intimo desiderio del ricordo.



La domanda nasce spontanea: come catturare la nostalgia in un luogo che cambia continuamente? Il regime stilistico del progetto è dettato da una geometria stringente, che ingabbia. Ingabbiare, intrappolare o almeno tentare di rendere terreno l’infinito. Nella mente il ricordo perde qualsiasi forma temporale. Ne rimane unicamente l’estetica, il momento infinitesimo; non sappiamo collocare il momento al tempo giusto, ma solo darne una scansione temporale in virtù della nostra esperienza, di quanto lo riteniamo malinconico ed emozionante. La simmetria, le linee geometriche, esse stesse potenzialmente infinite, tentano di trattenere il passato dall’immergersi completamente nelle acque della smemoratezza e imbrigliare il futuro, inumano, nelle loro maglie.
La rappresentazione di un oggetto – e non dell’umano – è anche questo. L’uomo invecchia e rappresentarne l’estetica equivale a trattenerne un guizzo, un’espressione che è destinata al confronto eterno con l’uomo che sarà. L’inanimato possiede in sé l’eterno, per quanto possa subire la forza del tempo; è capace di ingabbiare il ricordo, tanto da renderlo unico possibile soggetto nella necessità di memoria.

Non è così facile decidere se questo ricordare sia un conforto o una disperazione. Le due emozioni coesistono. Forse è confusione, incertezza; in fondo, speranza. Speranza di un mondo migliore? Di un ritorno al passato? Di un ritorno alla “normalità” tanto agognata? Di un ritorno alla realtà “materiale”? Queste sono le domande che ci pongono gli scatti. Il ricordo è pur sempre nebbia che vagamente schiarisce, non è accuratezza.
D’Alonzo ha l’incredibile coraggio e la maestria necessaria per giocare col nostro destino: passato, futuro e presente.


