Parlare del dolore non è facile: fa parte di quelle tematiche che si preferirebbe non dover affrontare mai. Specie quando si tratta del dolore peggiore, quello causato dalla perdita. Si tende allora, socialmente, ad accantonarlo, rinchiuderlo nel suo angolo insieme a qualche giro di parole, a qualche frase troppo lunga e politically correct, da tirare fuori in casi disperati, quando proprio non c’è altra scelta e si è costretti a scriverci su qualche riga. Abbiamo ricevuto il progetto di Lavinia Passetti, “A casa”, il 18 settembre. È servito più di un mese a frugare in quell’angolo tra vecchi orpelli e oggetti dimenticati, spazzando via la polvere, per capire come mettere insieme queste righe.

Le fotografie di Lavinia mostrano il dolore della perdita ritraendo non l’assenza, ma la presenza del suo papà. Anziché rappresentare una mancanza, la fotografa, giovane documentarista laureata all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, ha scelto di catturare in immagini tutti quei dettagli che portassero con sé la presenza del padre. In alcune delle fotografie è evidente la presenza di buchi e cavità, a comunicare il senso di vuoto lasciato dalla perdita. Anche le cavità sono però piene di concretezza, circondare da materiali solidi, da ambienti naturali o da una luce particolarmente intensa. Se ne trae la sensazione che il ruolo centrale sia dato all’oggetto in sé, alla sua presenza fisica nel mondo e nella scena che lo accompagna.

Noi della perdita di Lavinia non sappiamo nulla, certamente non potremmo ne vorremmo parlare del suo dolore, o raccontare la sua storia con la nostra voce che rimarrebbe inevitabilmente esterna ed estranea. In tutto questo, ci sentiamo però di sottolineare come la fotografia possa avere un ruolo nell’affrontare dolore e perdita. Il mondo attorno non si ferma dopo un evento traumatico. Continua a esistere, anche se cambia profondamente agli occhi di chi soffre. Lavinia racconta attraverso le sue immagini come si sia trovata a vivere in un mondo che definisce “completamente diverso,” un mondo che non sentiva suo e che trovava pieno di paure.
A questo punto ha fatto quello che più le viene naturale: ha preso la macchina fotografica e ha cominciato a ritrarre questo mondo così diverso da essere irriconoscibile al suo sguardo. Tra le sue fotografie si colgono anche solitudine, spaesamento, surrealtà. Sono immagini che ritraggono in maniera estremamente potente scene e oggetti appartenenti a una quotidianità trasfigurata. Una casa sola tra gli alberi fa un effetto straniante, anche se è proprio lì dove dovrebbe stare.

In generale siamo poco abituati ad avere a che fare con la morte e con la perdita che sono diventate, dopo la liberazione dal perbenismo vittoriano, il nuovo tabù sociale per eccellenza. È raro quindi che queste ci vengano messe davanti agli occhi in tutta la loro evidenza, come accade nel progetto di Lavinia. La morte è ciò che più profondamente e fondamentalmente accomuna gli uomini, con il solo difetto di non essere compatibile con uno stile di vita – quello che ci viene proposto nella società dei consumi – che lo vuole idealmente immortale.

La sofferenza viene allora accantonata, nascosta, archiviata nell’illusione che la morte capiti sempre e soltanto agli altri. Mentre la realtà è che la morte e la perdita riguardano tutti. Il modo in cui congediamo i nostri morti dice molto della disposizione che abbiamo nei confronti della società dei vivi.
Le fotografie di Lavinia, dedicate con semplicità “al mio babbo,” raccontano il distacco e la mancanza. Lo fanno con eleganza, delicatezza, ma anche con una precisione che non lascia spazio all’illusione. Il dolore riguarda tutti: gli altri, noi stessi e il modo in cui ci rapportiamo.

