“La fotografia mi guida nei sentieri dove posso rimanere stupita”
Nella chimica vige una regola aurea difficilmente infrangibile: “Il simile scioglie il simile”. Se provassimo a mescolare acqua ed olio, vedremmo due fasi ben distinte: acqua ed olio. Se provassimo a mescolare acqua ed alcol, is creerebbe invece una soluzione indistinta. Allo stesso modo noi incontriamo dei modelli e dei riferimenti. Ci piacciono individui affini alla nostra persona, ci intrigano tematiche affini ai nostri sentimenti, ci stupiscono concetti affini al nostro intelletto. Nel parlare di questa fotografa, mi sono sentito affine a lei nel modo di fotografare.
Bieke Depoorter nasce in Belgio nel 1986. Il suo rapporto con l’arte e la fotografia nasce praticamente per caso. Lei stessa dichiara: “Sono cresciuta in tranquillità in una piccola cittadina conservatrice in Belgio dove non ho mai avuto un rapporto diretto con l’arte. Penso di non aver mai visitato un museo prima dei miei diciotto anni”. La fotografia però l’ispira. “Quel mondo sembrava essere importante per le altre persone. Ma un’estate, ho deciso di provare l’esame d’ingresso per una scuola di fotografie a Gent, dicendolo solo a mia sorella e a mia madre”. Quella fu la scelta più azzeccata possibile. “Dal primo momento in cui misi piede nella scuola, sentii di essere nel posto giusto. L’idea che la fotografia fosse il mio pane quotidiano e l’idea che fossi circondata da persone con quello stesso pensiero, mi sembrava la scelta giusta”. Da quella scelta un percorso molto importante, tanto da essere nominata nel 2016 reporter per Magnus.
Così come scelse d’impulso la scuola di fotografia, così si realizza la sua stessa gestualità.

Il suo primo grande progetto, intitolato “Ou Menya” e realizzato all’età di ventuno anni, nasce dall’improvvisazione. “L’idea di base era fotografare momenti del mio viaggio lungo la ferrovia Trans-Siberiana. Per non dover stare in hotel, chiedevo alloggio nelle case che incontravo nel tragitto. Sorprendentemente mi sentii molto a mio agio e capii che le persone di notte si comportano in modo più naturale. Si creava un legame pur non comunicando verbalmente”. Bieke decide di applicare lo stesso principio in un luogo dove avrebbe potuto parlare la stessa lingua con gli ospitanti: the U.S. “Le persone erano molto più propense a raccontare storie di sé. Forse perché sapevano che sarei scomparsa dalle loro vite il giorno dopo”.
Lo stringere legami così volatili permette a Bieke, in un primo momento, di immortalare le persone nella loro situazione di comfort ed, in un secondo momento, di riflettere sulla stessa figura del fotografo. Chi è veramente il fotografo? Per rispondere a questa domanda la sua ricerca è dovuta continuare.

Il suo percorso conoscitivo prosegue in Egitto, dove però trova molta più difficoltà nel pernottare sera dopo sera in case diverse. L’impedimento più arduo è stata la diffidenza delle persone. Si doveva creare un rapporto di fiducia reciproca. Non bastava. Nel periodo di scatto, diverse persone hanno chiamato la polizia credendola una spia. Bieke non è convinta però di pubblicare le immagini rubate. Sentiva di tradire quello stesso rapporto di fiducia che era servito per portare a termine il progetto. Finalmente trova la soluzione nell’interazione col suo pubblico, chiedendo di scrivere sulle varie immagini le impressioni che queste avevano suscitato a primo impatto.
Si stava riappropriando della sua spontaneità.
In questo viaggio risponde in parte alla sua domanda.
“Ho realizzato che come fotografo è impossibile parlare della verità. Più lavoro fai, meno innocenza traspare”.

È evidente il bisogno di ricreare o di dare significa all’intenso rapporto tra chi fotografa e chi viene fotografato. Questo rapporto deve essere risolto in modo diverso da ogni persona che decide di immortalare in un dato momento il soggetto del proprio desiderio fotografico.
La risposta di Bieke è molto interessante.
Nasce anch’essa da un progetto. Questa volta si trova in Francia e nel suo peregrinare tra le strade di Parigi entra in un locale di striptease. Raccontare una storia molto spesso implica un racconto reciproco tra regista e attore. Un dialogo – si richiama molto l’idea di fotografia teorizzata da Michael Kenna – può anche essere molto difficoltoso tra i due soggetti, probabilmente per la scarsa familiarità. Proprio per questo è necessario collaborare col soggetto al fine di poter realizzare una propria idea creativa.
Esistono però delle domande prioritarie alle quali il fotografo deve rispondere ogni qual volta si approccia ad un nuovo progetto.
“Cosa sto facendo qui? Perché voglio queste foto? Cosa significano per gli altri?”

È necessaria una risposta. Altrimenti sarebbe come perdere l’orientazione nel deserto: facile e fatale. Nelle foto di Bieke Depoorter si sente questo assetto preciso, si percepisce che queste domande si sono in qualche forma esaurite; non tanto avendo la risposta, ma trovandola nel progetto.
Sicuramente nelle sue riflessioni la giovane fotografa è stata fortemente influenzata dalla realizzazione di un cortometraggio. Proprio lì si è accorta di utilizzare i propri soggetti come “attori”. Questo però non implica una mancanza di veridicità della foto? Non è l’aspetto cercato.
Tutta la sua fotografia è centrata sul dialogo, sull’aiuto reciproco nel raccontare una storia e nel risolvere quelle stesse domande poste dal fotografo a sé stesso. Interno, esterno, interno: questo è il flusso fotografico.
“Ogni volta che inizio un nuovo progetto, cado nella stessa trappola di sentirmi come se non sapessi cosa sto facendo o perché. Poi trovo un ingresso e tutto va di nuovo bene. È tutto un processo per mettere in discussione la fotografia e cercare soluzioni, e per me la collaborazione è spesso il modo migliore per orientarla”.

Ci passa un messaggio molto importante. La fotografia può essere usata come terapia.
Uno scatto emana le emozioni provate nell’istante dello scatto e nel dialogo avuto col soggetto, e possiamo vederle davanti a noi. Possiamo studiarle ed accettarle in noi.
Interno, esterno, interno… Bieke Depoorter