La pandemia scoppiata all’inizio dell’anno, seguita dall’imposizione della quarantena, ha messo a dura prova la stabilità di molti. Ci ha spinti a porci domande nuove, ci ha messo di fronte a realtà e problematiche prima d’ora sconosciute. Il mondo dell’arte, come quasi ogni altra parte della società, si è dovuto adattare e plasmare per prendere la forma del nuovo mondo.
Se per tanti artisti il lockdown ha rappresentato un momento difficile, a causa soprattutto delle interazioni ridotte al minimo, per altri è stato una risorsa. Noemi Filetti presenta di seguito il suo progetto ‘This Transient Time’, nato propri dall’osservazione delle piccole cose intorno a sé che è stato possibile grazie al fatto di trovarsi chiusa tra le mura (e il giardino) di casa.
Noemi è una fotografa giovane e un esempio di come, mentre il mondo attorno cambia, sia possibile rimanere fermamente ancorati alla propria passione e trovare nella produzione artistica un mezzo per elaborare le novità che portano con se’ i momenti più complessi.
• Ciao Noemi, grazie per il tuo tempo e la tua disponibilità.
Vorrei cominciare l’intervista chiedendoti del punto di vista tecnico: come sono realizzate queste immagini? La grana sembra suggerire l’utilizzo di una fotocamera analogica, è così? Con quale mezzo sono state realizzate? Ti sei occupata in prima persona di sviluppo e stampa? Sei intervenuta in qualche modo in fase di post produzione?
Sebbene l’analogico sia il mio strumento favorito, in realtà per questo progetto ho dovuto (a malincuore!) ricorrere al formato digitale. Dove ho trascorso la quarantena non disponevo di tutti i mezzi necessari per sviluppare e digitalizzare, ma volevo comunque fotografare e dedicarmi a questo progetto, quindi sono dovuta scendere a compromessi. Ovviamente, come amante della grana e della stampa, non posso evitare di non dare alle mie foto digitali un aspetto più analogico e in post produzione ragiono come se fossi in camera oscura.
Successivamente, ho provveduto a munirmi di tutto il materiale per processare l’analogico e ho continuato scattando anche su medio formato 6×6 e sviluppando in casa. Ormai però, mi ero già affezionata ad alcuni scatti fatti fino a quel momento in digitale e alla fine ho deciso, per questo progetto, di rimanere focalizzata su quel formato in modo da mantenere una coerenza stilistica.
- L’uso del bianco e nero sembra ricorrente nella tua pratica fotografica, a cosa si lega questa scelta?
Il bianco e nero mi permette di fotografare quello che sento. Ho provato spesso a fotografare a colori, ma per me è come parlare una lingua che non conosco. Quando guardo vedo linee, forme, e contrasti e quando scatto cerco di metterli in armonia tra loro; con il colore mi sembra di perdere tutto questo, non riconosco quello che stavo vedendo mentre fotografavo. Però adoro il colore, solo che non funziona per me!
In realtà poi c’è un altro motivo che è legato alla mia passione per la stampa in camera oscura; scattare in bianco e nero mi permette di occuparmi interamente dello sviluppo e della stampa.
- Ti ricordi la sensazione di quando ti sei avvicinata per la prima volta alla fotografia? Come è successo?
E’ difficile scegliere un evento in particolare che mi ci ha fatto avvicinare per la prima volta, però sicuramente so che a un certo punto è scattato qualcosa. Quando avevo 15 anni, c’era il padre di un mio compagno di classe che era stato un fotografo di reportage e organizzava incontri serali in cui dava lezioni di fotografia. Ci ero andata principalmente per imparare a usare la mia macchina fotografica, ma in quelle serate erano le storie dietro alle sue fotografie ad affascinarmi. Aveva fatto reportage per Medici Senza Frontiere per molti anni e per ogni sua foto c’era un tesoro di racconti. Da lì ho capito che la macchina fotografica era un mezzo verso le persone e il mondo, poteva portarmi da qualsiasi parte.
- Come hanno influito gli anni di studio in Inghilterra sulla tua fotografia?
Studiare all’università ha sicuramente smontato quella che era la mia visione iniziale della fotografia documentaristica. Una volta pensavo che fare reportage per National Geographic fosse il massimo dell’ambizione, mentre adesso ho interessi piuttosto differenti. Ho capito che il mio approccio vuole essere molto più intimo e personale, che non ci devono essere “fotografi” e “soggetti”, ma è possibile collaborare e conoscere davvero chi fotografiamo.
Esperienze fuori dall’università, mi hanno in realtà fatto appassionare ai lati più artigianali della fotografia, compresi processi alternativi e sperimentali che, nella mia esperienza, non sono stati esattamente supportati accademicamente. Quindi le mie aspirazioni attuali nella fotografia sono anche il risultato di divergenze con il mio percorso accademico.
- Il tuo progetto sembra ritrarre ambienti familiari. Sei tornata in Italia durante la quarantena? Come hai vissuto questi mesi di lockdown?
Ero tornata in Italia dall’Inghilterra a fine Febbraio per iniziare un progetto di fotografia partecipativa con un gruppo di migranti e rifugiati nella mia città natale. Questo progetto sarebbe dovuto essere l’ultimo lavoro del mio percorso universitario, ma ovviamente ho dovuto interromperlo con l’inizio del lockdown. Ho trascorso la quarantena nella casa di mio padre, nella quale non ho vissuto per gli ultimi quattro anni. Sono stata davvero fortunata perchè viviamo nella campagna in periferia di Savona, quindi mi ritengo assolutamente privilegiata avendo sempre avuto accesso all’aria aperta e la possibilità di dedicarmi ai miei progetti.
E’ stato un periodo surreale e alienante per tutti, però davvero, per come ho potuto trascorrerlo, non posso lamentarmi.
- Quali sono i tuoi fotografi o artisti di riferimento?
Sono sempre in costante ricerca di nuove ispirazioni, ma sicuramente ci sono artisti che hanno un ruolo speciale per me e costituiscono veri e propri punti di riferimento. Per quanto riguarda l’aspetto più estetico della fotografia diciamo “tradizionale”, autori come Paul Strand, Sally Mann, Emmet Gowin, Mitch Epstein, Larry Towell… riescono davvero a catturare l’inspiegabile nelle loro fotografie. Per dirla alla Diane Arbus (mi scuso per il clichè), le loro foto sono “un segreto di un segreto”, esercitano un vero e proprio magnetismo per quel velo di indecifrabilità che le caratterizza. Poi ci sono le tecniche alternative. L’anno scorso ho avuto la fortuna di imbattermi nel lavoro Ecotone + Littoral Drift di Meghann Riepenhoff e questo ha segnato profondamente il mio interesse verso quel mondo della fotografia considerato “alternativo”, ma che spesso è in realtà il prototipo vero e proprio della fotografia. La “cameraless photography” insieme a tutte quelle tecniche di stampa più artistiche, non penso dovrebbero essere considerate un mondo a parte e autori come Michael Flomen, Susan Derges, Paul Cupido, Albarran Cabrera non vorrei fossero “di nicchia”. In ultimo, la personalità che ha completamente ribaltato il mio approccio alla fotografia documentaristica è Wendy Ewald, la quale insieme a Susan Meiselas e Ariella Azulay mi hanno dato molte risposte ai miei interrogativi sul potere al cambiamento sociale che può avere la pratica fotografica, la quale non si limita allo scatto, la distribuzione e il consumo, ma è un vero e proprio apparato che ci determina molto più di quello che tendiamo a pensare.
- Come ti immagini, se ci riesci, tra cinque anni? Dove ti piacerebbe arrivare?
Sento davvero che ho ancora tantissimo da imparare e, adesso che ho finito questo percorso di studi, voglio focalizzarmi sulle possibilità educative e sociali della fotografia. Tra cinque anni vorrei sicuramente essere imbarcata in un progetto fotografico a lungo termine e anche essere riuscita a portare avanti quelli che sono i miei lavori attuali. Come ho detto, credo fortemente nell’utilizzo della fotografia come veicolo al cambiamento sociale e come mezzo per rafforzare la comunità. Comunichiamo e ci rappresentiamo principalmente tramite immagini, e allo stesso tempo abbiamo un deficit di cultura e consapevolezza delle arti visive. L’idea di insegnare fotografia a chi ne ha meno accesso come mezzo per rafforzare ed esprimere la propria identità culturale è la mia “chiamata” attuale. Insieme a questo, voglio davvero diventare esperta nelle tecniche di stampa e portare avanti la tradizione artigianale della fotografia.
Quindi non ho davvero un punto di arrivo, spero di essere nel bel mezzo di questo percorso che ho appena iniziato a intraprendere.
- Credi che la quarantena abbia influito sullo sviluppo dell’estetica della nostra generazione di artisti emergenti? Se si, come?
E’ presto per dire se ci sarà un’influenza a lungo termine, ma sicuramente queste circostanze eccezionali hanno avuto un grande impatto sugli artisti. Immagino che ognuno l’abbia vissuta in modo diverso, ma personalmente questo periodo di quarantena ha avuto un ruolo positivo sulla mia creatività. Innanzi tutto, ho avuto tempo. Questo mi ha permesso di lavorare con calma, riflettendo e sperimentando molto di più. Tutte le limitazioni che abbiamo avuto hanno spronato molti a trovare soluzioni alternative per continuare i loro progetti, magari scoprendo anche che queste soluzioni ci piacevano. Nella mia esperienza, con tutto questo tempo a disposizione sono riuscita a informarmi molto di più del solito, leggendo, partecipando a Zoom talk e webinar, per cui ho ricevuto tantissimi input per progetti futuri. La comunità artistica, nazionale e internazionale, è stata di incredibile supporto offrendo tantissime opportunità ed eventi gratuiti (penso che in molti ci siamo ritrovati in crisi sul quale diretta seguire alle 18.30). Quindi credo che anche per chi non si è sentito ispirato a creare qualcosa di nuovo durante la quarantena, questo tempo ha permesso di iniziare o continuare a processare lavori futuri.
Quindi sicuramente c’è stata un influenza, penso che vedremo più originalità negli artisti emergenti e spero anche più collaborazioni e iniziative collettive, proprio per il senso di appartenenza alla comunità creativa che è stato recepito.
- Come è nata l’idea di This Transient Time? Puoi parlarci brevemente anche della genesi del titolo?
Quando è iniziata la quarantena sono rimasta a vivere nella casa di mio padre nella quale non ho vissuto negli ultimi quattro anni, ma in cui ho trascorso la maggior parte della mia infanzia e adolescenza. All’inizio dell’emergenza sanitaria ho provato a fare un progetto documentando la situazione in relazione alla pandemia, ma ho perso velocemente ogni stimolo creativo e focalizzarmi su questa crisi aveva decisamente un effetto negativo sul mio umore.
Presto mi sono resa conto che la mia situazione personale mi dava molti più stimoli creativi; il fatto di vivere a “casa” è stata una circostanza eccezionale e spesso mi sono trovata a percepire passato e presente come sovrapporsi e scavalcarsi. La fotografia è diventata un processo terapeutico, una riflessione per mettere ordine alla mia “linea temporale” ed esprimere le emozioni confuse e contrastanti che provavo.
Riguardo al titolo This Transient Time può essere tradotto in italiano come “Questo tempo passeggero”, ho deciso di non tradurlo in quanto la parola inglese transient, a differenza dell’italiano “fuggevole” o “passeggero”non denota nessuna frivolezza. Il tempo a cui mi riferisco, infatti, non è necessariamente quello della quarantena, ma quello della vita che in questa situazione di crisi ci siamo resi conto essere estremamente prezioso e fragile.
- Fare fotografia ti ha aiutata durante la quarantena? Se si, in che termini?
Assolutamente.Come ho detto precedentemente, fare fotografia ha costituito un vero e proprio processo terapeutico permettendomi di riflettere ed elaborare tutti i sentimenti che stavo provando in quella situazione.
All’inizio del lockdown avevo ascoltato una webtalk di Mario Cresci in cui spronava noi artisti a fare arte in questo periodo difficile, in modo che quando ne saremmo usciti potevamo essere orgogliosi di essere riusciti a creare qualcosa da questa situazione. E’ stata questa voglia di potere in futuro guardare indietro a questo periodo e avere una cosa bella scaturita da questa circostanza a incoraggiarmi a fare un progetto.
- È stato diverso il processo creativo in questo contesto? Come hai gestito le diverse fasi essendo chiusa dentro casa?
Fare un progetto in casa e fotografare la mia famiglia mi ha permesso di poterci lavorare letteralmente in qualsiasi momento e senza alcun tipo di pressione. Ho anche sperimentato molto; nel “calderone” del materiale per questo progetto c’è letteralmente di tutto, da esperimenti “cameraless”, a fotografie astratte, da cose scritte su pezzi di carta e poi scannerizzate, a rullini scattati su medio formato… Con tutto questo materiale ho potuto fare delle scelte, alcune cose diventeranno parte di altri progetti, mentre altre possono essere aggiunte allo stesso a seconda di cosa voglio farne e dove voglio presentarlo. Fino ad adesso avevo soprattutto lavorato a progetti universitari e non avevo mai avuto tutto questo tempo e libertà di sperimentare, ma sicuramente è così che voglio continuare a lavorare in futuro.
- Tu definisci il tuo approccio alla fotografia come ‘sociale’, questo è molto interessante perché spesso si tende a considerare il fotografo come una figura solitaria, che in solitudine opera. Potresti approfondire o spiegare meglio questa tua visione? Com’è stato fotografare invece in un momento in cui la società ci ha voluti distanti gli uni dagli altri?
La fotografia è il mezzo sociale per eccellenza. Però per capirlo occorre fare una premessa, ovvero che la “fotografia” non è solo il momento dello scatto, ma tutto quello che ci sta intorno, che viene prima e dopo; per me è quella la parte più interessante. Facciamo fotografie per comunicare, e questo è un potenziale enorme per tantissime possibilità di confronto e riflessione.
Per me è fondamentale fare progetti in collaborazione con chi fotografo, ma anche il fotografo “solitario” può definire la sua pratica sociale a seconda di cosa fa o viene fatto con le sue immagini. Quindi questo apre una riflessione sull’importanza della fotografia in questo periodo. Stando chiusi in casa tutto quello che vedevamo erano fonti esterne, avevamo “sete” di immagini e video per capire cosa stesse succedendo. Mi chiedo come ci saremmo comportati senza tutte quelle immagini forti che hanno caratterizzato questo periodo, sicuramente hanno avuto un ruolo fondamentale nel sensibilizzarci e influenzare i nostri comportamenti. Poi, come ho detto prima, le immagini vanno condivise e discusse; il repertorio fotografico prodotto in questo periodo offre infinite riflessioni su come comunichiamo, come ci sentiamo, e le dinamiche della società contemporanea.