L’arte e quindi la fotografia hanno insite in sé stesse la necessità primordiale di raffigurare ciò che ci turba, che impaurisce; ciò che è bene, ciò che è male, col fine ultimo di renderci liberi o più confidenti con la nostra vita.
È in questo contesto che si inserisce il progetto “Asfodeli di cartapesta” della fotografa calabrese, classe ’96, Noemi Comi. Giovane fotografa che sin da bambina ha subito il fascino dello scatto e che ha completato la sua formazione al Laba – Libera Accademia di Belle Arti – di Firenze con una Menzione di Eccellenza alla carriera.
Questo progetto è figlio del concetto di ‘oltre’, di andare avanti, ed accettare in una nuova forma, per quanto artistica sia, la vita vissuta. “Ho deciso di sviluppare il tema producendo una sorta di sfida con me stessa che mi potesse permettere di andare proprio ‘oltre’ quelli che sono i miei limiti e le mie difficoltà.” Un rapporto intenso tra vissuto e presente.

“Asfodeli di cartapesta per certi versi è un tentativo di superare quelli che sono i miei limiti e le mie paure. Da adolescente volevo lavorare nell’ambito medico, ma è subentrata una certa suggestionabilità ed emotività che mi ha costretta a cambiare totalmente rotta. Nonostante la mia vicinanza all’ambito prettamente artistico, ho deciso di non nascondere totalmente questo mio lato. Inoltre, ho sempre provato dei sentimenti contraddittori nei confronti della morte, da una lato una certa repulsione, dall’altro una sorta di attrazione”.
Una ricerca sulla morte svolta sul campo, in un ambito quasi familiare.
“I miei genitori hanno lavorato per moltissimi anni proprio all’interno di questo ospedale. La mia ricerca si è incentrata principalmente all’interno dei reparti di Anatomia patologica e di Onco-ematologia”
Affrontare la morte e la malattia in un progetto fotografico non è mai un compito semplice, soprattutto nel rapporto che si crea con l’osservatore. Quando se ne parla, l’ambientazione e l’atmosfera rimangono fisse nel nero, nel cupo, nell’isolato; mentre qui vediamo una scelta cromatica molto vivace, in pieno contrasto con ciò che l’immaginario comune determina. Verde, viola e bianco sono i colori attorno a cui si sviluppa questo progetto; quasi una versione “drammatica”.

“In primis sicuramente vi è il tentativo di creare delle immagini ‘destabilizzanti’, che possano in qualche modo scuotere le coscienze e condurre verso la creazione di interrogativi di varia natura. Ma il mio non vuole essere un pretesto per ‘scimmiottare’ tematiche così delicate, ma piuttosto la presentazione di queste attraverso immagini che in altre culture non sono così sconcertanti. L’associazione della morte a tematiche cupe alla fine è una costante tipica soltanto di alcuni paesi occidentali”
Guardando i suoi scatti si entra in un’altra dimensione, dissonante col soggetto, che ci guida inevitabilmente alla conoscenza di noi stessi, delle nostre paure ed angosce. Questi colori che pungono vivacemente i nostri occhi non la rendono stabile, vivibile; la rendono, piuttosto, una realtà catartica, quasi curativa. Un mondo diverso da quello in cui viviamo, ma che ci aiuta a considerare il nostro sotto una luce differente; un mondo reso utopico dall’onnipresenza della morte.
“Io la considero piuttosto un’utopia che si configura all’interno di ampi spazi reali. Sembrerà strano ma non è assolutamente un mondo nel quale mi piacerebbe vivere, credo sia più che altro una rappresentazione inconsapevole del mio alter-ego”

Un alter-ego che è universale, che consapevolmente nascondiamo a noi stessi ogni giorno, secondo, attimo della nostra vita, in una continua rincorsa alla felicità; e quando arrivano morte e malattia, ci troviamo sempre spiazzati ed inadatti, come davanti a questi scatti così potenti ed articolati. È impossibile pretendere una lettura ad un solo livello: è necessario esplorare vie nascoste, impervie, personali, consapevoli ed inconsce; quasi aprissimo nuove ferrate su di una montagna che non ci porta verso la luce, ma piuttosto ci scaraventa nel profondo buio della nostra anima.
È evidente il riferimento ad un grande fotografo americano: Andres Serrano.
“Il fotografo americano attraverso la serie “The morgue” ha presentato dei cadaveri decontestualizzandoli e costruendo fotografie simili a tele pittoriche. Queste immagini in qualche modo hanno rappresentato il punto di partenza del mio progetto”

Quando si arriva in fondo e si è scoperta l’inevitabilità del processo vitale, in un continuo passaggio tra vissuto e vivente, cosa succede?
Come ci si rivolge alla Morte e alla Malattia come a un’entità trascendente di questo nuovo mondo che ora – si spera – si conosce, così ci si rapporta alla speranza di una cura, di una guarigione, di una consapevolezza. È in questa accezione positiva e mistica che si inserisce un palese riferimento alla cultura voodoo.
“Le immagini si arricchiscono anche di elementi simbolici, in chiave quasi esoterica. La magia voodoo contrariamente a quello che è il pensiero comune, viene utilizzata non solo per maledire ma anche per la cosiddetta magia bianca, come strumento per la realizzazione di desideri positivi come la guarigione”

Queste due dee che si palesano davanti a noi, Morte e Malattia, hanno bisogno del nostro rispetto, anche nella loro trattazione fotografica. Ciò che non è percepibile e rappresentabile in loco è soggetto alla post-produzione, che in questo progetto è parte fondamentale. Un momento in cui l’occhio e la coscienza dell’artista si rende partecipe delle sensazioni che vuole far percepire.
“Ovviamente ho potuto allestire solo parte delle immagini, soprattutto per non intaccare il lavoro del personale e rispettare la privacy dei pazienti. Di conseguenza la creazione degli ambienti ideali è avvenuta principalmente in fase di post-produzione; rimuovendo gran parte degli elementi identificativi e giocando su specifiche palette cromatiche”

Tutto ciò è racchiuso magnificamente nel titolo della raccolta, come ci ha spiegato Noemi stessa:
“Il titolo del progetto ha una valenza poetica, evoca gli asfodeli, una pianta da sempre utilizzata in ambito letterario per indicare il regno degli inferi. In netta contraddizione si trova, invece, il secondo termine del titolo: la cartapesta; tecnica artistica utilizzata per la creazione di opere vivaci e colorate. Ciò sta ad indicare la trattazione di un argomento cupo e inquietante, attraverso nuove vie, più contemporanee e dominate dai colori”
