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Hiroshi Sugimoto: Sulla soglia del tempo

Ritratto di Hiroshi Sugimoto

Il rapporto tra fotografia e tempo è sempre stato consolidato: un’immagine ci mostra un determinato spazio in un determinato momento nel passato. Che si tratti di una foto scattata con uno smartphone pochi secondi prima di vederla riprodotta sul display o un vecchio ritratto di famiglia stampato su un foglio di carta, la fotografia si nutre dell’accaduto, del compiuto, dell’avvenuto, già stato.

La teoria della fotografia e soprattutto il nostro inconscio hanno sempre percepito questa relazione come aprioristica. Ma questa incontestabilità dovrebbe dipendere dal presupposto che si conoscano ontologicamente entrambi i soggetti. In altre parole, fotografia e tempo dovrebbero essere delineabili in ogni loro dettaglio. 

Ci vuole poco per rendersi conto che se è vero che possiamo conoscere le caratteristiche specifiche alla fotografia, è altrettanto certo che definire la quarta dimensione è una vera e propria impresa, supponendo che il tempo sia. Citando la filosofa Elizabeth Grosz:

“Il tempo è uno dei termini assunti ma irriducibili di ogni discorso, conoscenza e pratica sociale. Eppure raramente viene analizzato o discusso inconsapevolmente ai suoi stessi termini. […] Il tempo ha una qualità di intangibilità, un’emivita fugace, che emette le sue particelle di durata solo nel passaggio o nella trasformazione di oggetti ed eventi, cancellandosi così come tale mentre si apre al movimento e al cambiamento. Ha un’evanescenza, una “identità” fugace o luccicante, altamente precaria che resiste alla concretizzazione, all’indicazione o alla rappresentazione diretta. Il tempo è più intangibile di qualsiasi altra “cosa”, meno in grado di essere colto, concettualmente o fisicamente ” (1999, p.1)

Questo articolo si concentrerà sulla complessa relazione tra fotografia e tempo attingendo ad alcune immagini di Hiroshi Sugimoto, uno dei più noti fotografi giapponesi contemporanei. 

Fotografie appartenenti alla serie Theatres (1975-2001), Dioramas (1975-1999) e Seascapes (1980-2002) saranno analizzate al fine di rivelare un diverso tipo di comprensione del tempo.

            Iniziamo con Theaters. La scelta di scattare foto di cinema-teatri non è stata casuale: Sugimoto fa un riferimento diretto al significato reale dei teatri, che “avevano lo scopo di allontanare il pubblico dalle loro condizioni attuali e fungevano da estensioni dei set cinematografici” (Yau, J. 1984, p.49). Questa stessa funzione è rimasta inalterata sin dalla sua introduzione nella prima tragedia greca, quando lo spettacolo teatrale era intriso di una temporalità parallela – lo spettatore veniva trascinato sul palco e viveva una sorta di cancellazione dello scorrere del tempo relativo alla sua esistenza. 

Nell’esempio specifico dell’antica Grecia, Aristotele scriveva della tragedia come una rappresentazione teatrale in grado di purificare le anime degli uomini attraverso la catarsi. Quest’ultima doveva essere intesa come “purificazione [dello] spirito e sublimazione [delle] emozioni per prepararsi o raggiungere uno stato di esaltazione” (Scapher, E. 1968, p.132). La catarsi è un artificio psicologico stimolato dall’incarnazione degli spettatori nelle azioni dei personaggi: l’identificazione del pubblico con la trama fornisce la possibilità di aggirare il tempo stesso. 

Si potrebbe sostenere che è la stessa sensazione che si verifica nei cinema odierni, dove il pubblico viene catapultato in un altro destino temporale, proprio al film. In definitiva, questo stesso sbalordimento si verifica anche quando si osservano i teatri di Sugimoto: “l’esperienza di guardare queste fotografie ci trasporta oltre la cornice fotografica e nel teatro” (Yau, J. 1984, p.50)

Sugimoto, H. Carpenter Center, 1993

Ma se cercassimo una rappresentazione del tempo in Theaters, Marc Cousin ci propone un’interessante intuizione. La necessaria “mutezza” (Van Lier, H. 2007, p.18) e, soprattutto, immobilità dei teatri comportano l’evacuazione del “tempo dalle relazioni interne della fotografia” (Cousin, M. 2000, p .5) – quei rapporti precedentemente delineati da pensatori come Barthes, Sontag e Berger. 

Ma l’immagine del tempo non si limita a un’idea non figurativa. Essa può essere espansa a una puramente visiva. Nella serie di immagini contenute nel fotolibro, l’autore si interessa inevitabilmente al rapporto tra tempo e luce. È risaputo che in ogni fotografia la relazione tra l’azione dei fotoni su una superficie sensibile alla luce e la velocità dell’otturatore è una peculiarità ontologica: in una fotografia non c’è luce senza tempo e viceversa. In Theaters, la “capacità della fotografia di registrare il tempo attraverso sfumature di luce” (Rexer, L. 2001, p.13) è usata per trasmettere un messaggio piuttosto rivelatore: che tutto ha un inizio e una fine, come il film stesso e, più ampiamente, la vita. 

Sugimoto, H. U. A.  Play House, 1978

Ma Sugimoto approfondisce questa idea invitando lo spettatore a contemplare l’immagine. Quasi come se il rettangolo bianco conferisse una verità universale, in realtà si presta a simboleggiare un ulteriore concetto: lo spettatore è portato a vivere all’interno del tempo piuttosto che attraverso di esso. Infatti, poiché il rettangolo bianco rappresenta la durata totale del film, le nozioni di passato e futuro perdono il loro significato, in modo tale da porre l’accento esclusivamente sul presente. Per lo stesso motivo Sugimoto sceglie di intitolare le sue foto con il nome del luogo in cui sono state scattate, piuttosto che con il titolo del film. Quest’ultimo non ha alcun significato.

Con Sugimoto il tempo assume una varietà di sfumature spettacolari. Soprattutto per quanto riguarda il passato, tanto caro alla fotografia.

 In effetti, alcune delle sue immagini funzionano come un mezzo per mostrarci un passato di cui non potremmo mai essere consapevoli. Nell’apprezzare “un senso di potere insito nella bellezza naturale che attira la nostra attenzione e ci travolge con la sua forza” (ibid.), siamo trasportati in dimensioni spazio-temporali che saremmo fisicamente in grado di visitare. È di fondamentale importanza capire che ciò accade perché “mentre una fotografia ferma il tempo, Sugimoto fotografa il tempo che si è fermato, anche se è un momento che si è verificato molte centinaia di secoli fa, prima che esistesse la macchina fotografica” (Yau, J. 2004, p 11).

Sugimoto, H. Polar Bear, 1976

Perché chi mai potrebbe trovarsi con una macchina fotografica davanti a un uomo di Neanderthal, o addirittura, davanti a un orso polare desideroso in procinto di mangiare la sua preda? Nessuno, ed è esattamente l’idea di nessuno che intensifica uno strato di inquietudine. L’esclusione di un possibile viewerimplica una condizione paradossale. Di fronte alle immagini della serie Dioramas, lo spettatore non è consapevole di guardare un evento privo di qualsiasi tipo di relazione temporale. Diversamente da Theaters, dove lo spettatore era incline a rifiutare le nozioni di passato e futuro, in Dioramas anche il presente smarrisce il suo significato. 

Sugimoto, H. Earliest Human Relatives, 1994

Di fronte a tali immagini ci rendiamo conto che “i soggetti non notano la nostra presenza. Siamo figure senza corpo in bilico appena oltre lo spazio della loro interazione sociale” (Yau, J. 2004, p.11). Oppure, come è stato diversamente indicato, “le fotografie ci sembrano intrinsecamente sbagliate a causa di una disconnessione esistente tra il contenuto e la rappresentazione, tra ciò che vediamo e ciò che la nostra conoscenza del vocabolario della fotografia acquisita attraverso l’elaborazione di innumerevoli immagini provenienti da una società satura di media. […] Sugimoto avvicina l’immagine al reale, ma si interrompe poco prima della completa persuasione” (Brougher, 2010, p.20).

Infine, proprio come in Theaters, le immagini di Seascapes si basano sulla ripetizione di composizioni identiche. Lo scatto è diviso in due parti equivalenti, quella inferiore contiene l’oceano, la superiore il cielo. Questa uniformità, questa perfetta simmetria tra i due elementi “fa cadere come un velo il decisamente intangibile sullo specifico, il concetto sul concreto, riportando tutti i mari al loro stato fondamentale di acqua e aria” (Brougher, K. 2010, p.21). 

Sugimoto, H. Ligurian Sea, Saviore, 1982

In Caribbean Sea, Jamica, 1980 [Fig.18] l’assenza assoluta di qualsiasi possibile distrazione, come uccelli, uomini o barche, trasmette la vera essenza dell’opera: “questo è l’oceano come i nostri antenati potrebbero averlo visto. Oppure, se vogliamo andare avanti nel tempo, potrebbe essere il modo in cui sarà guardato dai sopravvissuti dell’ignorata ma incombente apocalisse, il disastro che abbiamo fomentato con sempre più fervida disattenzione”(Yau, J. 2004, p. 13).

Sugimoto, H. Caribbean Sea, Jamaica, 1980

Bibliografia:

Grosz, E. (1999), Becomings. Explorations in Time, Memory and Futures, Cornell University Press

Yau, J. (2004), Time Halted: The Photographs of Hiroshi Sugimoto, in The American Poetry Review, American Poetry Review (Philadelphia) Vol. 33, No. 5, September/October 2004, pp. 11-16.

Schaper, E. (1968), Aristotle’s Catharsis and Aesthetic Pleasure, The Philosophical Quarterly, Vol. 18, No. 71, Apr. 1968, pp. 131 – 143

Van Lier, H. (2007), Philosophy of Photography, Leuven University Press: Leuven (Belgium)

Cousins, M. (2000), Time and the image, edted by Gill, Bailey, C., Manchester University Press: Manchester, UK.

Rexer, L. (2001), Hiroshi Sugimoto: Theaters, in Graphis (Switzeralnd), July 2001, No. 334, Art, Design & Architecture collection, pp.10-17

Brougher, K. (2010), Impossible Photography, in Hiroshi Sugimoto, edited by Eickel, N., Horowitz, D., Wilkins, A. Hatje Cantz Verlag: Ostfildern

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